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Sono sempre più numerosi gli ultraottantenni che conducono una vita attiva e desiderano trovare sollievo dal dolore e ridurre le limitazioni funzionali correlate a problematiche articolari. 

Deformità a carico del ginocchio, quali il valgismo (le cosiddette ginocchia a X) o il varismo (ginocchia a O) possono favorire l’insorgenza di problematiche artrosiche e determinare dolore e limitazioni funzionali che rendono difficoltoso condurre una vita normale. 

Nei pazienti più anziani questo può tradursi in una riduzione dell’autonomia tale da rendere necessario il ricorso a un intervento di sostituzione protesica

Ma c’è un limite anagrafico per effettuare questo tipo di intervento? Questa è una domanda che spesso mi viene posta dai miei pazienti più anziani. La mia risposta è che ogni situazione deve essere valutata singolarmente, come dimostra il caso di una mia paziente di 85 anni che ha subito un intervento di sostituzione protesica totale di ginocchio ed è ritornata alla normalità della sua vita quotidiana. 

 

Il caso clinico

Dolore e limitazioni funzionali a carico del ginocchio possono essere tali da divenire invalidanti e limitare l’autonomia dei pazienti più anziani. Ma anche in questa fascia di età, quando le condizioni generali di salute lo consentono, è possibile valutare l’opportunità di effettuare un intervento chirurgico per l’impianto di una protesi totale di ginocchio.

È il caso di Giovanna, milanese d’adozione, donna vivace e dalla mente brillante, molto attiva e totalmente autonoma, che presentava limitazioni della mobilità nel ginocchio destro valgo che le dava instabilità. Attività come salire le scale oppure prendere la metropolitana erano diventate problematiche per lei. 

In virtù delle sue buone condizioni generali di salute, dell’assenza di comorbilità (ossia di altre patologie concomitanti) e della sua forte motivazione a riprendere in mano la sua vita, è stata sottoposta all’intervento di artroprotesi totale di ginocchio.

 

La testimonianza di Giovanna: “Ho ripreso in mano la mia vita”

“Con la pandemia non sono più andata in piscina né in palestra e a un certo punto ho iniziato ad avere problemi alle ginocchia. Facevo fatica a fare le scale, facevo fatica ad alzarmi dal water e dal bidet.” 

Ho cominciato a pensare a me stessa, non riuscivo più a camminare, dovevo fare qualcosa.

E ancora: “Il mio problema non era il dolore (probabilmente la mia soglia del dolore è molto alta) ma era che non potevo fare più quello che facevo prima. La mia motivazione era il fatto di poter essere indipendente.”

Giovanna è stata sottoposta all’intervento in dicembre; il suo percorso è stato più che positivo, come lei stessa dichiara: “L’intervento è riuscito perfettamente e io ho reagito benissimo all’operazione; non pensavo di reagire in questa maniera. Al terzo giorno camminavo con le stampelle. Peraltro ho avuto la fortuna immensa di trovare una compagna di stanza estremamente positiva”.

 

L’importanza di essere motivati

Il risultato dell’intervento dal punto di vista clinico è stato eccellente, con correzione della deformità del ginocchio, e privo di complicanze.

Dopo l’operazione Giovanna ha svolto con regolarità e caparbietà un programma di riabilitazione personalizzato. 

L’intervento ha portato a un maggior grado di autonomia di movimento consentendole di riprendere il suo tran-tran quotidiano e migliorando di conseguenza la sua qualità di vita. Ecco le sue parole: “Appena finita la fisioterapia ho ricominciato a prendere la metropolitana”. “Adesso devo continuare a fare ginnastica per migliorare l’estensione del ginocchio.” 

Giovanna ha ripreso in mano la sua vita e ha riconquistato la sua quotidianità, orgogliosa di fare di nuovo le scale della metropolitana da sola. Per il mese di ottobre ha anche programmato una crociera sul Nilo con la sorella.

“Il bello è il contatto che ho con il Dottor Milella. In caso di bisogno posso contattarlo. C’è un rapporto di fiducia molto bello”. E ha concluso: “Ho trovato in lui una persona meravigliosa”.

Le parole di Giovanna e la sua esperienza positiva sono una grande soddisfazione per me e un incentivo a continuare a lavorare con e per i miei pazienti.

 

Conclusioni

L’età avanzata non è una controindicazione assoluta all’intervento di artroprotesi di ginocchio, che rappresenta una strategia valida per affrontare dolore e limitazioni funzionali anche nei pazienti più anziani che desiderano rimanere attivi e vivere in piena autonomia. 

È comunque importante effettuare un’attenta valutazione del rapporto tra rischi e benefici in relazione non solo alle condizioni generali di salute del paziente, ma anche delle sue motivazioni e delle sue aspettative.


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Nei pazienti candidati a un impianto di protesi d’anca, la riabilitazione comincia in fase preoperatoria; ma prima e dopo l’intervento di chirurgia protesica il lavoro riabilitativo di competenza del fisioterapista può essere supportato da un’altra figura, quella dell’osteopata.

A questo proposito, mi avvalgo della collaborazione di professionisti come il Dottor Simone Speciale, laureato in Scienze Motorie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore nel 2015. Successivamente ha conseguito il Diploma in Massoterapia, il Diploma di terapista avanzato di riequilibrio posturale globale con metodo Raggi, un Master Universitario di I livello in Posturologia e Biomeccanica e il Diploma in Osteopatia D.O.

Figura professionale a cui affido i miei pazienti con artrosi d’anca prima e dopo l’intervento di chirurgia protesica, gli abbiamo posto alcune domande.

 

Dottor Speciale, qual è il ruolo dell’osteopatia prima di un intervento di protesi d’anca?

Il paziente con coxartrosi (artrosi dell’anca) candidato a un intervento di sostituzione protesica arriva da me con dolore. In alcuni casi si tratta di pazienti sottoposti a un ciclo di infiltrazioni con acido ialuronico finalizzate ad alleviare il dolore e ritardare l’intervento chirurgico.

Come osteopata valuto il paziente nella sua interezza, concentrandomi non tanto sul sintomo quanto piuttosto sulle possibili cause che hanno portato alla situazione attuale, con l’obiettivo di ripristinare un corretto funzionamento del corpo nel suo complesso. Anche nel caso specifico dell’artrosi d’anca, vado quindi a lavorare sul paziente nella sua globalità.

La prima seduta si divide in 3 fasi: 

  • anamnesi personale, per raccogliere informazioni relative alla storia clinica del paziente, a traumi e interventi chirurgici pregressi, e per valutare il tipo di dolore
  • valutazione posturale, per verificare l’atteggiamento e la presenza di squilibri nell’appoggio dei piedi o a carico del bacino 
  • test sull’anca, per valutare la mobilità dell’articolazione in termini di flessione, estensione e rotazione interna ed esterna.

 

Sulla base di quanto emerso da queste valutazioni viene impostato un piano di trattamento osteopatico.

Parallelamente al percorso di rinforzo muscolare preparatorio all’intervento chirurgico, di competenza del fisioterapista, con l’Osteopatia possiamo lavorare sulle problematiche correlate alla situazione contingente, per esempio problemi a carico della schiena o del ginocchio, e su dinamiche posturali sbagliate.

Per noi è importante capire le dinamiche che nel tempo possono aver contribuito all’insorgenza dell’artrosi, per esempio uno squilibrio posturale provocato da vecchi traumi, un piede piatto o una scoliosi trascurata, una problematica a livello viscerale. In alcuni casi, alterazioni posturali per trazione meccanica o per meccanismi di protezione possono essere correlate ad aderenze o restrizioni della mobilità a livello del tessuto muscolare, fasciale o viscerale dovute alla presenza di cicatrici di interventi pregressi effettuati in aree del corpo vicine all’anca (per es. appendicectomia, isterectomia, parto cesareo).

In sostanza, il trattamento osteopatico si concentra sulle zone che possono avere creato un’alterazione posturale tale da aver potuto contribuire all’insorgenza dell’artrosi.

 

Quanto è importante lavorare in sinergia con il chirurgo ortopedico e il fisioterapista?

Il mio lavoro presuppone una collaborazione continua con il chirurgo ortopedico e si interseca con quello del fisioterapista che si occupa di recuperare al meglio l’anca.

Nei pazienti con coxartrosi, in parallelo alla terapia infiltrativa con acido ialuronico effettuata dall’ortopedico per ridurre il dolore e l’infiammazione, e al rinforzo muscolare e alla rieducazione del passo di competenza del fisioterapista, il trattamento osteopatico può consentire di far guadagnare al paziente qualche grado di mobilità in più all’articolazione, una migliore elasticità dei tessuti, una riduzione del dolore e un miglioramento della postura, contribuendo a posticipare l’intervento chirurgico di sostituzione protesica.

 

Dopo l’intervento di protesi d’anca che tipo di supporto può dare al paziente? 

Quando inizio un lavoro con un paziente a cui è stata impiantata una protesi d’anca, mi occupo della persona nella sua globalità e non della protesi in sè. 

Si tratta di un paziente che ha una storia di dolore e dinamiche posturali messe in atto e portate avanti nel tempo, seppur in modo inconscio, per compensare un’articolazione che non si muoveva bene. 

E sebbene l’impianto protesico abbia ridonato al paziente operato la mobilità articolare, il suo schema motorio è ancora il medesimo; possono quindi essere presenti rigidità alla schiena, al ginocchio e alla caviglia, che devono essere trattate.

Viene valutato inoltre il bilanciamento dei carichi, se la persona tende a spostare il peso del corpo sull’anca controlaterale a quella operata per paura dell’appoggio sull’anca nuova, creando così dinamiche posturali alterate a protezione della protesi stessa. 

Il trattamento osteopatico, in sostanza, è finalizzato a correggere atteggiamenti posturali sbagliati correlati alla situazione contingente, ma non solo.

È possibile lavorare anche sulla cicatrice, sulla muscolatura intorno e sulla liberazione delle fasce di tessuto connettivo per migliorare l’aspetto circolatorio e l’elasticità dei tessuti, supportando a 360 gradi il lavoro del fisioterapista al fine di aiutare il paziente a raggiungere un recupero ottimale.


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Nei pazienti candidati a un impianto di protesi d’anca, la riabilitazione comincia già in fase preoperatoria: mantenere i muscoli tonici, infatti, accelera i tempi di recupero postoperatorio e ha un ruolo cruciale per il successo ottimale dell’intervento.

Ritengo quindi indispensabile che il paziente si sottoponga a un programma di riabilitazione e di rinforzo muscolare personalizzato già prima della procedura chirurgica.

Per questo mi avvalgo della collaborazione di professionisti come il Prof. Gustavo Fenaroli, laureato in Scienze Motorie presso l’Università Cattolica di Milano nel 2002, Massofisioterapista dal 2006 e docente di Teoria Tecnica e didattica dell’attività Motoria nell’età Adulta e Anziana presso l’Università Cattolica di Milano.

Per me figura indispensabile che da anni si occupa del riallenamento dei miei pazienti anche prima dell’intervento, gli abbiamo posto alcune domande in proposito.

 

Prof. Fenaroli, come avviene la preparazione all’intervento di protesi d’anca?

La preparazione è soggettiva e dipende dalle condizioni di partenza del paziente, in funzione delle quali viene pianificato un allenamento personalizzato finalizzato a una risposta neuromuscolare più immediata in fase postoperatoria.

Il primo obiettivo è l’attivazione muscolare. Il dolore avvertito dal paziente lo porta spesso a usare male i muscoli, mettendo in atto una deambulazione compensatoria, quindi una cattiva deambulazione, e determinando un ipotono muscolare (soprattutto a livello della muscolatura glutea o del quadricipite) che genera poi delle difficoltà in fase postoperatoria. 

È dunque importante arrivare all’intervento con un buon controllo della muscolatura e un detensionamento dei muscoli compensatori. 

Il lavoro sulla muscolatura, sulla mobilità articolare e sul controllo propriocettivo viene comunque sempre effettuato in modo cauto evitando di far provare al paziente dolore, che altrimenti lo porterebbe a proteggersi provocando un ulteriore accorciamento della muscolatura.

In fase preoperatoria lavoriamo inoltre sulle andature coordinative, cercando di far camminare il paziente nel miglior modo possibile (anche con un bastone canadese, ossia la stampella, quando necessario). Eliminare un vizio posturale prima dell’intervento rappresenta infatti un fattore cruciale a supporto di una riabilitazione postoperatoria più semplice.

L’allenamento preoperatorio viene sempre personalizzato in funzione di un ritorno alla normalità dopo l’intervento, come un abito cucito su misura da un sarto, e può quindi avere una durata variabile (da alcuni mesi a poche settimane) in relazione alle condizioni e alle aspettative del singolo paziente. 

La collaborazione e lo scambio di informazioni tra noi e il Dr. Milella è fondamentale per poter definire un piano di lavoro personalizzato prima della procedura chirurgica.

 

Come prosegue il percorso dopo l’intervento? 

In fase postoperatoria, durante la degenza clinica è fondamentale l’intervento della figura del fisioterapista.

Dopo le dimissioni il paziente viene inviato presso il nostro Centro per iniziare un percorso di ripristino e di recupero completo, che prevede da 2 a 4 sedute settimanali (scalando nel tempo il numero di sedute) in relazione a diversi fattori: l’età e le condizioni del soggetto, la funzionalità e la presenza di importante ipotono, oltre che le attività che dovrà tornare a praticare. 

Nel corso delle sedute, che hanno una durata di un’ora e mezza – 2 ore, vengono effettuati diversi tipi di esercizi focalizzati su mobilità articolare, tono muscolare e propriocettività. Si cura inoltre l’aspetto deambulatorio al fine di far camminare il paziente nella maniera più corretta e utilizzare la protesi nel miglior modo possibile.

Cerchiamo sempre di far lavorare il paziente in assenza di dolore, limitando quindi il ROM (range of movement) e recuperandolo lentamente.

Per rinforzare l’arto, ricorriamo all’inizio a piccole resistenze (cavigliere e piccoli elastici) per poi lavorare con resistenze più importanti, oppure utilizziamo macchine computerizzate che ci consentono di monitorare il lavoro.

Infine, per quanto riguarda la propriocettività e la postura ci avvaliamo dell’ausilio di macchinari propriocettivi o stabilometrici o di semplici attrezzi propriocettivi come ad esempio materassini, cuscini ad aria o a sabbia.

Cerchiamo inoltre di simulare le dinamiche della vita quotidiana, facendo fare al paziente qualche gradino, piccole salite e discese, in un percorso di recupero che viene tarato anche il base ai riscontri del Dr. Milella nel corso delle visite di controllo postoperatorie. 

Da 2 anni ci avvaliamo inoltre di una terapia fisica che utilizza la vibrazione al fine di drenare l’articolazione dai versamenti. In caso di cicatrice particolarmente rigida o adesa e contratta, infine, andiamo a intervenire manualmente, anche con tecniche quali la coppettazione, per rielasticizzare il tessuto.

 

Quanto conta l’aspetto psicologico?

Va premesso che il paziente a cui è stata impiantata una protesi d’anca in genere viene da un’esperienza di dolore importante prima dell’intervento e quindi spesso, per quanto limitato nei movimenti, dopo l’operazione si sente sollevato dal dolore.

Certamente nel percorso di riabilitazione postoperatoria l’aspetto psicologico è molto importante e noi cerchiamo di motivare e spronare ogni paziente evidenziandone sempre i miglioramenti.

Siamo molto attenti a questo aspetto e all’eventuale necessità di un supporto professionale per le persone che manifestano paure e ansie che potrebbero determinare un blocco della mobilità. 


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Per i pazienti con artrosi grave e invalidante di anca e di ginocchio, l’artroprotesi (ossia l’impianto di una protesi che sostituisca l’articolazione malata) rappresenta la strategia di trattamento risolutiva per alleviare il dolore e ripristinare una funzionalità articolare tale da restituire loro una qualità di vita soddisfacente. 

Negli ultimi anni numerose innovazioni tecnologiche nell’ambito della chirurgia protesica hanno contribuito a migliorare i risultati clinici di questo tipo di intervento e la longevità degli impianti. Tra queste anche l’introduzione dei sistemi robotici. 

 

Pianificazione preoperatoria 

Prima di un intervento di chirurgia protesica, l’uso della chirurgia robotica consente al chirurgo un’acquisizione degli assi biologici e dei punti di riferimento articolari dell’anca e del ginocchio. In particolare, un sistema operativo specifico consente di acquisire ed elaborare i dati di una tomografia computerizzata (TC) effettuata dal paziente generando un modello 3D della sua struttura ossea, dell’articolazione e dell’arto. 

La registrazione delle immagini e l’elaborazione dei dati biometrici da parte del software consente, in fase preoperatoria, di programmare un piano chirurgico virtuale e di pianificare con accuratezza i tagli ossei necessari, la posizione precisa dell’impianto e le dimensioni delle componenti protesiche, consentendo al chirurgo di progettare l’intervento nei minimi dettagli e supportandolo poi durante l’intervento.

Il sistema robotico, in sostanza, è stato concepito per ridurre al minimo il margine di errore associato alla resezione ossea e consente di fornire in tempo reale una guida per il posizionamento intraoperatorio delle componenti protesiche e il loro allineamento.

 

Chirurgia robotica assistita

L’intervento viene eseguito grazie a un braccio robotico sul quale vengono montati gli strumenti chirurgici necessari alla procedura. 

I movimenti del braccio robotico, estremamente precisi, sono controllati direttamente dal chirurgo: a una consolle di comando, con un schermo che fornisce immagini in tempo reale, il chirurgo può gestire attraverso dei manipoli il movimento degli strumenti e preparare con massima precisione l’alloggiamento per il posizionamento della protesi.

L’estrema precisione nei tagli garantita dal braccio robotico (con margini di errore inferiori al millimetro) assicura un maggior rispetto dell’anatomia del paziente, consentendo di mantenere l’integrità del tessuto osseo sano e dei tessuti molli circostanti.

 

Quali vantaggi?

L’ausilio della chirurgia robotica nelle procedure di artroprotesi permette di migliorare l’accuratezza del dimensionamento delle componenti protesiche e raggiungere la massima precisione nel posizionamento dell’impianto.

Questo si traduce in una riduzione delle complicanze correlate a malposizionamento, del dolore postoperatorio e dei tempi di recupero, con una ripresa più rapida della funzionalità articolare dopo l’intervento. 

La massima precisione nei tagli garantita dal braccio robotico si traduce in minor sanguinamento nel corso della procedura chirurgica e in un minor trauma a carico delle strutture anatomiche del paziente.

In definitiva, lo sviluppo di sistemi intelligenti per la chirurgia ortopedica può rappresentare un ausilio per il chirurgo al fine di migliorare la precisione del posizionamento dell’impianto e dell’allineamento dell’asse dell’arto inferiore, con ricadute positive in termini di esiti funzionali e sopravvivenza dell’impianto.

Una doverosa considerazione: la chirurgia robotica può rappresentare un supporto prezioso per il chirurgo che si avvale del suo utilizzo, ma richiede una formazione specifica e competenze elevate; è quindi sempre necessario affidarsi a strutture di riferimento e specializzate in questo tipo di intervento.


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Per il trattamento conservativo dei pazienti con artrosi lieve-moderata – una patologia di natura degenerativa, cronica e progressiva che può provocare dolore e limitazioni funzionali importanti a livello articolare, con un impatto negativo sulla qualità di vita di chi ne soffre – è possibile avvalersi di diversi approcci. 

La fisioterapia e la terapia infiltrativa (con acido ialuronico, cortisonici) sono strategie ormai consolidate che possono contribuire a migliorare la funzionalità articolare e alleviare il dolore. Ma l’ultima frontiera in termini di gestione conservativa dell’artrosi arriva dalla medicina rigenerativa ed è rappresentata dall’infiltrazione intra-articolare di un preparato autologo contenente un’elevata concentrazione di proteine plasmatiche, citochine antinfiammatorie e fattori di crescita.

Gli studi relativi a questa terapia, ideata per alleviare il dolore e rallentare la progressione del processo di degenerazione cartilaginea, sono ancora agli inizi, ma i primi risultati sembrano piuttosto promettenti. 

Il razionale

Le innovazioni in ambito tecnologico e le conoscenze sempre più approfondite dei meccanismi che stanno alla base dei processi artrosici hanno reso possibile la progettazione di un approccio che prevede la produzione e l’utilizzo per via infiltrativa di una soluzione antinfiammatoria contenente concentrazioni elevate di globuli bianchi, piastrine e proteine plasmatiche a partire da una piccola quantità di sangue autologo, ossia prelevato dal paziente stesso.

L’osteoartrosi è infatti una patologia strettamente correlata a una condizione infiammatoria cronica, in cui un incremento delle citochine infiammatorie gioca un ruolo nella produzione del danno articolare.

L’aumento di citochine infiammatorie quali IL-1 e TNFα, in particolare, provoca deterioramento della cartilagine e dolore al ginocchio. 

Per ridurre il dolore e rallentare il processo di degradazione cartilaginea si è quindi pensato di bloccare l’azione di tali proteine infiammatorie utilizzando la componente antinfiammatoria del paziente.

L’introduzione a livello articolare di citochine antinfiammatorie agirebbe inibendo l’attività delle citochine infiammatorie in eccesso nei processi artrosici, con un effetto positivo anche in termini di riduzione del dolore.

La procedura

Nel dettaglio, per la preparazione della soluzione proteica autologa (Autologous Protein Solution o APS) viene prelevata una piccola quantità di sangue del paziente stesso. 

Il campione viene processato attraverso un sistema sterile monouso per separare le componenti cellulari mediante centrifugazione e concentrare la soluzione proteica autologa finale, che contiene le citochine antinfiammatorie in concentrazioni nettamente superiori a quelle del sangue intero. 

Con questa procedura vengono inoltre concentrate citochine anaboliche coinvolte nel processo di “costruzione” della cartilagine.

La soluzione finale così ottenuta viene infiltrata direttamente a livello dell’articolazione artrosica, contribuendo a migliorarne la funzionalità e ridurre dolore e rigidità. Gli studi clinici suggeriscono che l’efficacia di tale iniezione intra-articolare possa mantenersi per almeno 12 mesi.

Una considerazione finale: le infiltrazioni con soluzione proteica autologa potrebbero rappresentare nel prossimo futuro una strategia in più a disposizione dell’ortopedico nella gestione del paziente artrosico, ma non va mai dimenticato un aspetto che risulta fondamentale al fine di rallentare il processo artrosico e che tengo a sottolineare ai miei pazienti, ossia il ruolo essenziale giocato da fattori come la riduzione del peso corporeo, un regime alimentare sano e lo svolgimento di un’attività fisica adeguata.


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La sostituzione di un’articolazione compromessa è un intervento che si rende spesso necessario per risolvere la sintomatologia dolorosa e le limitazioni funzionali invalidanti correlate a problematiche di natura artrosica. 

Oggigiorno sono disponibili diverse tipologie di protesi, con differenti design e realizzate con vari materiali che presentano peculiarità e caratteristiche diverse l’uno dagli altri.

E grazie alla tribologia (termine che deriva dal greco tribos=attrito e logos=studio), ossia la scienza che studia l’attrito, l’usura e le problematiche che possono verificarsi in seguito al movimento relativo tra materiali, è ormai accertato che l’accoppiamento dei materiali con cui sono realizzate le componenti protesiche condiziona sensibilmente la durata degli impianti. Uno scorrimento con basso attrito tra le componenti protesiche, infatti, ne minimizza l’usura massimizzando la durata dell’impianto stesso.

Durata di una protesi: l’importanza dei materiali

Studi recenti hanno evidenziato che la mobilizzazione di una protesi, ossia il suo scollamento dall’osso, è generata da un quadro infiammatorio cronico che si sviluppa a causa della liberazione di particelle di dimensioni microscopiche (particolato) prodotte dall’usura dei materiali conseguente ai movimenti reciproci delle componenti protesiche.  

Per questo motivo è fondamentale che, in fase di pianificazione di un intervento di chirurgia protesica, oltre alla tipologia e al design della protesi venga valutato con attenzione anche l’accoppiamento dei materiali più idoneo al singolo paziente, al fine di assicurare la miglior funzionalità articolare possibile in relazione alle sue necessità e aspettative.

I materiali con cui vengono attualmente realizzate le componenti di un impianto protesico e che possono interfacciarsi tra di loro in diversi modi sono: ceramica, metallo e polietilene. 

Sebbene siano stati condotti numerosi studi relativi al comportamento dei diversi accoppiamenti dei materiali, non esiste un accoppiamento “vincente” rispetto agli altri, ma ciascuno presenta vantaggi e limiti.

Ceramica-ceramica

La ceramica è un materiale resistente all’usura, ma è caratterizzata da una fragilità intrinseca maggiore rispetto agli altri materiali menzionati. L’eventuale rottura degli impianti ceramici in seguito a cadute o infortuni (seppur tale rischio è ridotto in virtù dell’avanzamento tecnologico dei materiali) provoca una microframmentazione della ceramica all’interno dell’articolazione, tale da non permettere il reimpianto di altri materiali se non metallo o ceramica.

Nel caso dell’accoppiamento ceramica-ceramica, peraltro, è possibile riscontrare un problema di rumorosità: alcuni pazienti lamentano infatti la continua percezione di cigolii fastidiosi (i cosiddetti “squeaking”) anche nel caso di una protesi d’anca posizionata correttamente.

Ceramica-polietilene

Un accoppiamento molto utilizzato e affidabile è quello tra ceramica e polietilene. In questo caso la ceramica è accoppiata a un materiale plastico a basso coefficiente di attrito che, grazie alla sua capacità ammortizzante, rende la struttura meno rigida e conferisce elasticità e resistenza agli urti riducendo il rischio di rotture della componente in ceramica.

Va precisato che, grazie al progresso tecnologico, il polietilene utilizzato attualmente è molto diverso da quello usato anni fa, che andava incontro a usure importanti. Oggi infatti viene utilizzato polietilene di ultima generazione, ad alta densità e con struttura reticolata, caratterizzato da un’elevata resistenza all’usura anche grazie all’aggiunta – durante il processo produttivo – di vitamina E, un potente antiossidante naturale che rende il polietilene, e quindi anche gli impianti protesici, più resistenti nel tempo.

Accoppiamento metallo-metallo

L’accoppiamento metallo-metallo, in via teorica il più resistente dal punto di vista meccanico, è allo stato attuale pressoché inutilizzato, in quanto l’usura della componente protesica determina la liberazione di ioni metallici, in particolare gli ioni di cromo-cobalto, che oltre determinati livelli di concentrazione nel sangue possono generare uno stato di tossicità a carico dell’organismo (il cosiddetto fenomeno della metallosi). 

Questa problematica è più evidente nei casi in cui l’accoppiamento metallo-metallo riguarda superfici contrapposte di piccolo diametro; si presenta infatti con maggior frequenza nelle donne, in cui il diametro della testa femorale (più piccolo rispetto agli uomini) genera un grado di usura maggiore e quindi la liberazione una quantità maggiore di particolato. 

Triplo accoppiamento

Un caso particolare è rappresentato dalle protesi a doppia mobilità – un tipo di protesi dell’anca in cui l’inserto tra testa e acetabolo è mobile –  per le quali spesso viene utilizzato un accoppiamento di tre materiali diversi:

  • una testina femorale sferica in ceramica (o eventualmente in metallo)
  • un inserto in polietilene (che funge da cuscinetto) 
  • un metal back (una sorta di supporto dell’elemento acetabolare che lo vincola alle ossa del bacino) in metallo.

 

La mia scelta

Personalmente la mia scelta prevalente ricade sull’accoppiamento ceramica-polietilene. In particolare, utilizzo componenti realizzate in ceramica delta di ultima generazione (che ha un coefficiente di attrito molto basso) e polietilene reticolato ad alta densità addizionato con la vitamina E.

La scelta di questo tipo di accoppiamento offre la garanzia di un impianto resistente e duraturo, con un’elevata capacità ammortizzante.

Indipendentemente dal tipo di accoppiamento dei materiali, tengo comunque a precisare che l’usura degli impianti protesici è correlata anche al posizionamento delle componenti: se le componenti protesiche non sono perfettamente posizionate una rispetto all’altra, si sviluppano infatti fenomeni di usura precoce con mobilizzazione anche qualora vengano utilizzati materiali moderni ed evoluti.

Al fine di ottenere risultati eccellenti in termini non solo di funzionalità, ma anche di usura delle componenti protesiche e di sopravvivenza dell’impianto è quindi fondamentale affidarsi a chirurghi esperti in chirurgia protesica e che operano in strutture sanitarie specializzate.


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Il processo artrosico a carico dell’anca (coxartrosi) può interessare una sola oppure entrambe le articolazioni, ossia contemporaneamente l’anca destra e quella sinistra.

In quest’ultimo caso, in pazienti selezionati è possibile effettuare la doppia sostituzione protesica nel corso del medesimo intervento. 

È il caso di un mio paziente di 57 anni, che ha subito un intervento di sostituzione protesica bilaterale dell’anca per coxartrosi e nell’arco di un paio di mesi è ritornato alla normalità della sua vita quotidiana. 

 

Il caso clinico

In una percentuale non trascurabile di pazienti la coxartrosi si presenta bilateralmente, ossia colpisce sia l’anca destra che quella sinistra.

A causa del dolore e delle limitazioni funzionali correlate a questa problematica, e che possono essere tali da divenire invalidanti anche in età non avanzata, può rendersi necessario ricorrere all’intervento di sostituzione protesica di entrambe le articolazioni. 

E quando le condizioni generali del paziente lo consentono è possibile valutare l’opportunità di impiantare ambedue le protesi nel corso di un unico intervento chirurgico.

È il caso di Marco, che presentava dolore e limitazioni della mobilità, in particolare a carico dell’anca sinistra che era pressoché bloccata. Attività come andare in bicicletta, camminare per lunghi percorsi, fare camminate in montagna erano diventate per lui problematiche.

Gli accertamenti radiografici hanno consentito di porre la diagnosi di coxartrosi bilaterale e dare chiara indicazione all’intervento di artroprotesi, in quanto le evidenze di un’anca quasi in anchilosi non lasciavano spazio alle strategie di tipo conservativo.

 

La protesi bilaterale: quali vantaggi

Si rendeva quindi necessario il ricorso all’impianto di una protesi per l’anca sinistra e di una protesi per la destra. 

Come spesso accade in questi casi, il paziente ha manifestato timore per l’intervento: “Ma non è troppo presto per fare l’intervento? Non sono ancora giovane?” 

Ma dopo un periodo di esitazione, il dolore e le limitazioni funzionali hanno persuaso Marco a non temporeggiare più e a sottoporsi all’operazione chirurgica. 

In virtù delle sue buone condizioni generali di salute e dell’assenza di particolari comorbilità (ossia di patologie associate), gli ho proposto l’intervento bilaterale, quindi l’impianto simultaneo delle due protesi. 

Eseguire la sostituzione protesica di entrambe le articolazioni in un’unica seduta chirurgica si traduce in numerosi vantaggi per il paziente. Consente infatti di evitare una doppia anestesia e di evitare un doppio percorso di riabilitazione, con tempi di recupero complessivamente più brevi rispetto a due singoli interventi effettuati in due ricoveri diversi.

Peraltro il doppio intervento consente una grande accuratezza nella pianificazione della lunghezza dei due arti scongiurando potenziali scompensi a livello posturale.

 

L’esito dell’intervento e l’importanza di arrivare “pronti” 

Prima dell’intervento Marco si è sottoposto a un programma di riabilitazione e di rinforzo muscolare ad hoc con il fisioterapista Prof Gustavo Fenaroli, per me una figura professionale fondamentale, con la quale collaboro.

Mantenere i muscoli tonici consente infatti un recupero più semplice in fase post-operatoria e ha un ruolo cruciale per il successo ottimale dell’intervento.

Marco è stato sottoposto all’intervento bilaterale d’anca a fine novembre e dopo l’operazione ha svolto con costanza un programma di riabilitazione personalizzato.

Ecco le sue parole in proposito: “I due mesi precedenti l’intervento ho fatto una riabilitazione specifica presso il centro Salus lemen di Almenno San Bartolomeo, in provincia di Bergamo”

“Sono stato operato il 30 novembre e la sera stessa dell’intervento il dottor Milella mi ha piegato la gamba e ho capito che facendo determinati movimenti non sentivo più dolore. 

La sensazione più bella è stata il giorno dopo, quando mi sono messo in piedi e ho iniziato a camminare… Da lì in poi è stato un miglioramento continuo.” 

“Dopo le dimissioni ho continuato il percorso riabilitativo iniziato in Clinica, con 3 sedute di fisioterapia alla settimana, un percorso specifico e mirato che continua tuttora.”

A due mesi dall’intervento Marco vive una vita assolutamente normale. Il risultato dell’intervento dal punto di vista clinico è stato ottimo e la sua esperienza positiva, come egli stesso dichiara. 

 

La testimonianza di Marco: “Rispetto a prima è un altro vivere”

“Il momento più difficile è stato quando il dottore mi ha proposto il doppio intervento” – spiega Marco, che all’inizio aveva dubbi e timori a riguardo. 

 “Il dottore mi ha lasciato il tempo di decidere, mettendomi davanti ai limiti della mia indecisione, però non ha mai cercato di forzarmi nella mia scelta. Quando ho preso coscienza della situazione, il dottore mi ha rassicurato e mi ha spiegato la procedura e i vantaggi dell’intervento bilaterale.”

Il percorso per Marco è stato più positivo di quanto potesse immaginare, come lui stesso racconta:

“Il mio è stato un percorso che definirei piacevole, perché non ho sofferto, non ho sentito nulla da quando sono sceso in sala operatoria, e poi è stato un crescendo di benessere.”

“Il mio stupore più grande è stato quando mi sono messo in piedi il giorno dopo l’intervento.” 

E ancora: “L’intervento ti rimette in una situazione psicofisica ideale per poter riprendere la vita che si faceva prima.” E ha concluso: “Se l’avessi saputo, l’avrei fatto prima.”

L’esperienza positiva di Marco è la soddisfazione più grande per me e uno stimolo in più a continuare a operare quotidianamente seguendo la mia filosofia: lavorare con e per il paziente.


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Negli ultimi anni il progresso delle tecnologie e la ricerca in campo medico hanno portato allo sviluppo di terapie conservative innovative per il trattamento di patologie di interesse ortopedico, dalle problematiche a carico delle articolazioni alle tendinopatie, uno dei disturbi muscoloscheletrici di più comune riscontro. 

Tra le strategie utilizzate nell’ambito della medicina rigenerativa vi sono le infiltrazioni con derivati piastrinici. Vediamo più in dettaglio di cosa si tratta.

Derivati piastrinici: che cosa sono

I derivati piastrinici o gel piastrinici (Platelet Rich Plasma, comunemente indicato con l’acronimo PRP) sono sostanze autologhe (ossia che derivano dal paziente stesso) che, come si deduce dalla denominazione, sono ricche di piastrine.

Rispetto alla funzione meccanica e di “lavaggio” propria della viscosupplementazione, le infiltrazioni con PRP sono quindi correlate alla funzione biologica dei fattori di crescita naturalmente presenti in grande quantità nelle piastrine stesse.

In effetti, i derivati piastrinici non esplicano la loro azione riparando i danni tissutali, ma agiscono attraverso il richiamo di cellule immunitarie e di cellule scarsamente differenziate che possiedono una considerevole azione antinfiammatoria e bioregolatrice.

Infiltrazioni di PRP: la procedura

La procedura di infiltrazione del PRP, rapida, poco invasiva e sicura, viene effettuata in regime ambulatoriale. 

Più in dettaglio, viene prelevata dal paziente una modesta quantità di sangue venoso poi sottoposta a un processo di centrifugazione che consente di separare la componente ematica ricca di globuli rossi dal concentrato piastrinico. 

Il concentrato piastrinico così ottenuto viene quindi iniettato direttamente nella zona da trattare.

In relazione al tipo di preparazione si possono ottenere concentrati piastrinici differenti in termini di concentrazione finale e caratterizzati dalla presenza o meno di globuli bianchi.

La natura autologa del derivato piastrinico garantisce la sicurezza per il paziente e l’assenza di possibili reazioni avverse.

PRP e tendinopatie

Le infiltrazioni di PRP hanno mostrato risultati promettenti in termini di efficacia nel trattamento delle tendinopatie sintomatiche, ossia caratterizzate da dolore e limitazione funzionale a carico di un tendine, struttura anatomica poco vascolarizzata e a lenta guarigione. 

In generale, i tendini particolarmente a rischio di tendinopatie sono quelli della spalla, del gomito, del polso, del ginocchio e del piede (in particolare il tendine d’Achille).

Obiettivo delle infiltrazioni con PRP è ridurre il dolore e determinare un miglioramento della funzionalità, consentendo al paziente di tornare alle sue normali attività della vita quotidiana.

Nella mia attività clinica, mi avvalgo delle infiltrazioni autologhe con PRP nei pazienti che presentano tendinopatie inserzionali quali epicondilite (il cosiddetto “gomito del tennista”), epitrocleite (il “gomito del golfista”), tendinopatia della cuffia dei rotatori della spalla o tendinopatia dell’Achilleo, specie nei casi in cui le terapie tradizionali non hanno fornito risultati adeguati in termini di riduzione del dolore.

Strategie infiltrative e non solo

Per quanto riguarda le problematiche artrosiche, nell’ambito della medicina rigenerativa preferisco avvalermi invece delle infiltrazioni con cellule staminali da tessuto adiposo o di infiltrazioni con soluzioni proteiche autologhe. 

La terapia infiltrativa può rappresentare una strategia valida per alleviare la sintomatologia dolorosa correlata a problematiche di natura artrosica nei soggetti che non possono affrontare l’intervento di sostituzione protesica. Nei pazienti candidati a un intervento di artroprotesi, l’approccio infiltrativo, per quanto efficace, può rivelarsi utile a rimandare il tempo chirurgico, ma non azzera la necessità di ricorso all’intervento stesso.

Le strategie rigenerative, infatti, possono rallentare il danno a carico della cartilagine articolare stabilizzando l’evoluzione artrosica, ma il patrimonio cartilagineo non può essere ripristinato con la terapia infiltrativa.

In generale, quando ci si sottopone a terapia infiltrativa un ruolo fondamentale viene giocato da fattori quali il controllo del peso, l’attività fisica, il rinforzo muscolare e la dieta, che, per raggiungere i risultati auspicati, vanno sempre abbinati alla medicina rigenerativa e proseguiti anche prima e dopo l’approccio infiltrativo.


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La chirurgia protesica può rendersi necessaria per risolvere problematiche di tipo artrosico anche in pazienti giovani che praticano attività sportive (competitive e non) quando l’approccio conservativo si sia rivelato inefficace. 

Si tratta dunque di pazienti che si aspettano di continuare o riprendere uno stile di vita molto attivo anche dopo la sostituzione dell’articolazione. 

Infatti, una delle domande che mi vengono poste più frequentemente dagli sportivi è proprio se e quando potranno tornare a praticare attività sportiva. 

Per molti di loro il desiderio di tornare a svolgere una specifica attività e la paura di dovervi invece rinunciare rappresentano un fattore cruciale nella decisione di sottoporsi o meno all’intervento di chirurgia protesica. 

 

Qual è la protesi giusta per uno sportivo?

La risposta non è univoca: non esiste infatti una protesi che va bene per tutti. Piuttosto il chirurgo deve saper scegliere di volta in volta quella più adatta a ogni singolo paziente.

Sicuramente oggi grazie alle innovazioni nell’ambito delle procedure chirurgiche e dei dispositivi protesici è possibile non solo eliminare il dolore e migliorare la qualità di vita, ma anche raggiungere un recupero funzionale dell’articolazione tale da consentire un certo grado di attività fisica e sportiva, superando i limiti precedentemente imposti dall’osteoartrosi. 

Tuttavia un livello elevato di attività fisica aumenta il rischio di stress e usura tra le componenti protesiche e l’interfaccia protesi-osso, determinando nel peggiore dei casi l’instabilità e una mobilizzazione precoce della protesi stessa.

È dunque di cruciale importanza scegliere la protesi più adatta caso per caso, in relazione non solo alla qualità ossea e alla conformazione anatomica del paziente, ma anche alle sue richieste funzionali e al tipo di attività sportiva che pratica e vorrebbe tornare a praticare. 

La scelta deve essere condivisa con il paziente, che va messo a conoscenza dei vantaggi e dei limiti di ciascuna opzione.

La protesi di rivestimento

Nell’ambito della chirurgia protesica dell’anca, un tipo di protesi che consente a pazienti artrosici giovani e sportivi di recuperare la funzionalità articolare, ridurre il dolore e ritornare all’attività sportiva è rappresentato dalla protesi di rivestimento, il cui impiego prevede che la testa del femore, mantenuta integra, venga piuttosto ricoperta da una struttura realizzata in una speciale lega metallica. 

Questa tipologia di protesi permette dunque un importante risparmio osseo in persone che, data la giovane età, hanno una probabilità maggiore di dover affrontare in futuro un intervento di revisione. La protesi di rivestimento inoltre, rispettando il centro di rotazione del femore e del bacino, non modifica la biomeccanica dell’anca e, trattandosi di un’interfaccia metallo-metallo, è resistente a carichi elevati e più duratura delle protesi tradizionali. 

Per contro, questo tipo di protesi presenta delle problematiche intrinseche, come un maggior rischio di reazioni avverse rispetto a un impianto tradizionale, conseguenti alla liberazione, determinata dall’usura, di ioni metallici (in particolare, cromo e cobalto). 

Vantaggi e limiti rendono la protesi di rivestimento una soluzione di nicchia, non destinata a tutti ma riservata a pazienti selezionati con necessità funzionale molto elevata. È il caso di un mio paziente, amante di sport estremi, che sottoposto a protesi bilaterale all’anca con protesi di rivestimento, svolgendo con costanza esercizi mirati di fisioterapia, ha ottenuto il totale recupero di forza e mobilità e ha ripreso la normale attività sportiva in 6 mesi, tornando a praticare il kitesurf.

Protesi a doppia mobilità

Una delle complicanze che preoccupano maggiormente gli sportivi che devono sottoporsi a un intervento di chirurgia protesica dell’anca (soprattutto le donne, che presentano un diametro della testa femorale minore rispetto agli uomini) è la possibilità di un’eventuale lussazione, ossia la fuoriuscita della testa del femore dalla cavità acetabolare in cui è alloggiata. 

Per assicurare maggior stabilità e prevenire il rischio di lussazione delle componenti protesiche durante l’attività sportiva è possibile impiantare un tipo di protesi definita “a doppia mobilità”, cioè in cui l’inserto tra testa e acetabolo è mobile. 

Questo tipo di protesi è in grado di assicurare una stabilità articolare maggiore anche nelle donne che vogliono praticare sport, come dimostrato da una mia paziente che, dopo un intenso programma di riabilitazione, ha potuto riprendere l’attività sportiva agonistica di arbitro di calcio a 5 a livello nazionale. Per un approfondimento su questo caso leggi qui.

La protesi a doppia mobilità tuttavia non è adatta per persone che praticano sport da contatto (per esempio, il calcio) o attività sportive che possono provocare traumi tali da portare alla dislocazione della protesi, quali lo sci. 

L’importanza della riabilitazione

Dopo un intervento di chirurgia protesica, indipendentemente dal tipo di protesi impiantata, ai fini di un pieno e rapido recupero della funzionalità articolare e per tornare a praticare sport, un ruolo cruciale è giocato dal percorso di riabilitazione postoperatoria.

È fondamentale che il paziente si impegni costantemente nel percorso riabilitativo e collabori appieno con il fisioterapista seguendone le indicazioni. 

A questo proposito, mi avvalgo della collaborazione di professionisti estremamente preparati che lavorano con il paziente per aiutarlo a migliorare giorno dopo giorno, in linea con la mia filosofia: lavorare con e per il paziente.

 


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L’artrosi è una patologia cronica e progressiva, di natura infiammatoria, caratterizzata dall’usura della cartilagine articolare. Seppur frequente in età avanzata, questa condizione può interessare anche soggetti giovani e, a causa del dolore e delle limitazioni funzionali a carico dell’articolazione colpita, avere ripercussioni negative in termini di qualità di vita e di autonomia di movimento.

L’evoluzione nell’ambito della ricerca medica e delle tecnologie ha consentito di sviluppare nuovi approcci conservativi per il trattamento delle patologie articolari. In particolare, nell’ambito della medicina rigenerativa sono stati raggiunti risultati apprezzabili grazie a nuove terapie finalizzate ad alleviare i sintomi correlati a patologie artrosiche di entità lieve o moderata e a posticipare l’intervento di sostituzione protesica.

Tra questi, un ruolo di primo piano è svolto dalla terapia infiltrativa con cellule staminali mesenchimali di origine adiposa.


Cellule staminali: come si ottengono?

Le cellule staminali mesenchimali sono presenti in tutti i tessuti del nostro organismo, ma la loro concentrazione è particolarmente elevata nel tessuto adiposo. Possono quindi essere prelevate estraendo, tramite una piccola cannula, una modesta quantità di tessuto adiposo dall’addome o dai fianchi del paziente. Trattandosi di tessuto adiposo autologo (ossia proveniente dal paziente stesso), viene scongiurato qualsiasi rischio di rigetto e di insorgenza di reazioni avverse.

Si tratta di una procedura di chirurgia rigenerativa estremamente sicura e mininvasiva, che peraltro viene effettuata in regime di day hospital (non prevede il ricovero). 

Il tessuto adiposo prelevato è immediatamente processato per ottenere le cellule staminali mesenchimali che, nel corso della medesima seduta operatoria, vengono poi inoculate nell’articolazione colpita dall’artrosi. In particolare, il tessuto adiposo viene sottoposto a procedimenti sofisticati di frammentazione e lavaggio in modo da eliminare le componenti oleose ed ematiche, in grado di favorire l’insorgenza di processi infiammatori, e quindi iniettato direttamente nell’articolazione e nei tessuti peri-articolari (ossia intorno all’articolazione stessa).

Con le tecniche oggi disponibili, derivate dalla chirurgia plastica, l’impatto sulla sede di prelievo del tessuto adiposo è molto basso, in virtù soprattutto di accessi piccoli e dell’utilizzo di cannule di nuove morfologie e dimensioni contenute.

Perché questo approccio

La ricerca continua nell’ambito della medicina rigenerativa ci ha consentito di poter sfruttare le potenzialità delle cellule staminali mesenchimali da tessuto adiposo, che hanno dimostrato di possedere un’importante capacità antinfiammatoria e bioregolatrice, oltre che un effetto omeostatico a livello delle articolazioni colpite da artrosi.

La frazione vasculo-stromale del tessuto adiposo (composta da cellule staminali mesenchimali, oltre che da un insieme eterogeneo di cellule, fattori di crescita e sostanze antinfiammatorie) è in grado di produrre delle sostanze che riducono i processi infiammatori a livello articolare, rallentando quindi il processo artrosico. Di conseguenza, viene migliorata la funzionalità articolare ed alleviato il dolore correlato alla patologia.

La terapia infiltrativa con cellule staminali viene utilizzata con l’obiettivo di posticipare l’intervento di impianto di una protesi e alleviare i sintomi legati ad artrosi lieve-moderata, garantendo una buona funzionalità articolare e una vita senza eccessive limitazioni.

In quali casi è utile

In linea generale, la terapia infiltrativa con cellule staminali è utile nei pazienti giovani che presentano processi artrosici in fase iniziale o artrosi post-traumatica (causata, per esempio, da infortuni sportivi) e non sono candidabili all’intervento chirurgico. L’innesto di cellule staminali nell’articolazione contrasta i processi infiammatori riducendo il dolore e può contribuire al recupero della funzionalità articolare.

La terapia infiltrativa con cellule staminali risulta molto utile anche nei pazienti in età più avanzata che, pur avendo necessità di sottoporsi a un intervento di sostituzione protesica, presentano comorbilità o problematiche di salute generale tali da impedire che siano avviati al trattamento chirurgico.

In definitiva, la terapia infiltrativa con cellule staminali di derivazione adiposa rappresenta una strategia di trattamento minivasiva, rapida e sicura per la gestione conservativa delle problematiche artrosiche in pazienti selezionati.


Dove riceve

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Tel. 02.66803294 – Mercoledì e Venerdì dalle 15 alle 20
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